martedì 16 dicembre 2014

Intervento di Michele Beltrami a Castelletto Ticino

CASTELLETTO TICINO
RICORDO DEI PARTIGIANI FUCILATI DAI FASCISTI AL PORTO
1° NOVEMBRE 1944 - 1° NOVEMBRE 2014
intervento di Michele Beltrami
 "Avrei dovuto essere qui con voi il 25 aprile scorso, ma ho dovuto con mio grande rammarico rinunciare, promettendo però che sarei venuto il 1° novembre. Eccomi quindi in questa piazza, dopo essere stato il 24 ottobre a Novara a ricordare gli otto patrioti che fra il 17 e il 24 ottobre 1944 furono massacrati dai fascisti. Memoria quindi di due eventi tragici.
Ma essere qui a Castelletto mi permette di condividere con voi un ricordo lieto, il ricordo del vostro concittadino, del vostro e nostro Albino Caletti, il mitico “Capitano Bruno”. Un ricordo commosso, che è simboleggiato da una piccola scatola nelle quale conserviamo una ventina di distintivi dell’URSS che il capitano Bruno anno dopo anno donava a nostro figlio Matteo.
Un grande affetto aveva il Capitano Bruno per tutta la nostra famiglia. La famiglia del “Capitano” a fianco del quale aveva combattuto, con il coraggio e la lealtà che sempre contraddistinguevano il suo agire. Fu proprio per la fiducia che il “Capitano” riponeva in lui che gli fu affidata la missione di recuperare il primo lancio destinato alla formazione, lancio che arriverà proprio quel tragico 13 febbraio. Nel libretto “Tre volte trent’anni” che celebrava i 90 anni di Bruno si legge: Il non essere stato presente alla battaglia di Mégolo lascerà in Bruno il dubbio che qualcosa avrebbe potuto andare diversamente quel giorno al Cortavolo. Se fossi stato presente (sono le sue parole) avrei cercato di dissuadere Beltrami dall’accettare lo scontro … ma sarei poi rimasto al suo fianco come hanno fatto gli altri, caduti con lui.
Il libretto mi fu donato dallo stesso Bruno con la dedica Caro Michele e fratelli un piccolo ricordo di un partigiano del cap. Beltrami. Non è un piccolo ricordo, ma un prezioso ricordo di un grande uomo, di un grande combattente per la libertà.
Ma bisogna dire che, oltre ad Albino Caletti, furono molti (quasi 120) i cittadini di Castelletto che presero parte alla Guerra di Liberazione, sia come partigiani combattenti, sia come membri del CLN. E Castelletto divenne, come testimoniò il vostro concittadino Arturo Lorenzini, “un centro importante, sia per l’invio di giovani nelle formazioni di montagna, sia per informazioni, viveri e denari che raccoglievamo per il sostegno della lotta armata”.
Fra i castellettesi caduti vorrei in particolare ricordare Dario Sibilia, il cui nome non compare accanto a quelli dei partigiani caduti. Era un diciottenne allievo dell’Accademia Navale, che l'8 settembre con altri 8 compagni di accademia raggiunse il rinato Esercito Italiano nel quale combatté e morì nella terribile battaglia di Montelungo l'8 dicembre 1943. Mi colpisce la giovane età: era coetaneo di Gaspare Pajetta che combatté e morì a Mégolo insieme al papà. Due “giovani come voi” come diceva Calamandrei parlando agli studenti milanesi.
Non erano invece di Castelletto i cinque partigiani che vennero fucilati 70 anni fa in questo luogo e dei quali è comunque bene ripetere ogni volta i nomi, sottolineando l’età, e onorare la memoria:
veniva da Vigevano Giovanni Barbieri, 44 anni
da Torino Teresio Clari , 30 anni
da Milano Ernesto Colombo, 18 anni
da Invorio Sergio Gamarra, 19 anni
da Bogogno Luciano Lagno, 23 anni
e da Taino Carlo Boca, 17 anni, che all’ultimo fu graziato
Erano sei partigiani, tre giovanissimi. Si trovarono a combattere in queste zone e, nel corso di un rastrellamento nel Basso Vergante, furono catturati e rinchiusi nel carcere di Arona, dove subirono percosse e sevizie e alla fine furono condotti qui per essere fucilati davanti alla popolazione di Castelletto, costretta ad assistere al macabro spettacolo. Persino i passeggeri dei treni in sosta vennero appositamente fatti scendere perché pur’essi fossero spettatori.
L’assassinio nelle piazze e nelle vie delle città, e comunque nei luoghi abitati, era l’operazione preferita dai capi fascisti “perché, sono parole di Vezzalini, i morti fanno spettacolo, la popolazione deve vedere …”. In particolare doveva vedere e rabbrividire la popolazione di Castelletto, la cui ostilità verso i fascisti e quindi anche verso gli occupanti nazisti si era sviluppata ed era cresciuta fino a concretarsi in svariate azioni di sostegno delle formazioni partigiane.

L’assassinio in pubblico avveniva per vendetta o meglio per rappresaglia. I fucilati, i massacrati non erano quasi mai i diretti responsabili delle sconfitte o delle perdite subite dai fascisti. Non lo erano i massacrati di Novara del 24 ottobre 1944; non lo erano i fucilati di Castelletto Ticino, che non c’entravano nulla con la fucilazione da parte dei partigiani dell’ ufficiale della "X MAS" Leonardi, avvenuta il 29 0ttobre.
Quanto avvenne qui 70 anni fa voi lo sapete, fa parte della memoria di Castelletto, è documentato, vi è stato più volte narrato. Ed è giusto così, perché, anche se i fucilati non erano di Castelletto, il luogo e il modo con cui questa fucilazione venne eseguita dimostra la volontà dei fascisti, in particolare dell’Ungarelli, di offendere e intimorire proprio Castelletto, di ferire Castelletto.
A fronte della vigliaccheria e della ferocia dei fascisti sta il coraggio e la dignità dei condannati che, come scrive il Massara, “Allineati di fronte alla popolazione e al plotone d’esecuzione intonano con voce ferma la canzone partigiana ‘che importa se ci chiaman banditi, il popolo conosce i suoi figli’”. Il giovanissimo Carlo Boca, che l’Ungarelli decide all’ultimo di graziare, intimorito dalla reazione della popolazione, corre ad abbracciare i suoi morituri compagni e a forza i militi lo allontanato da loro, per poi riportarlo nel carcere di Arona, dal quale riuscirà a evadere prima della Liberazione.
Lo stesso coraggio e la stessa dignità si ritrovano nella lettera che Sergio Gamarra scrive alla madre poco prima di essere fucilato:

Cara mamma,
oggi è giunta la mia ultima ora ma non mi importa di morire. Perdonami se ho mancato, se sono andato via senza il tuo permesso, ma muoio contento come un buon cristiano e un vero italiano.
Salutami tutti gli amici e parenti e i vicini. Non arrabbiarti con nessuno.
Ricevi un grosso bacio e così pure ai fratellini e alla zia Nenè.
Tuo per sempre
Sergio

Per coincidenza proprio nella stessa data vengono fucilati da un plotone di fascisti nel fossato della fortezza del Priamar a Savona sei partigiani (anche qui sei condannati!), tre uomini e tre donne. Una di queste, Paola Garelli “Mirka” scrive una lettera alla figlia:

Mimma cara,
la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia ed ubbidisci sempre gli zii che t'allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla.
Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro.
Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio.
Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo.
Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandoti.
La tua infelice mamma

Sergio Gamarra, 19 anni, scrive alla mamma, Paola Garelli, 28 anni, scrive alla figlia. Entrambi chiedono perdono per il dolore provocato, Sergio alla mamma, Paola a tutta la famiglia. Ma entrambi sono consapevoli di aver fatto la scelta giusta e vanno a morire sereni.
Sorprende questa comunanza di sentimenti fra due persone diverse per età, per sesso e per origine, che combatterono e morirono in luoghi fra loro distanti.
Sorprende, ma ci fa capire che c’era un denominatore comune, c’erano sentimenti e ideali comuni che muovevano i partigiani, che combattessero in Piemonte, o in Liguria, in Emilia, in o nel Molise, come peraltro testimoniano le lettere dei condannati a morte della Resistenza.
Per questo io credo che ogni volta che in un luogo si ricorda un evento o un caduto sia opportuno ricordare anche quanto accadde in altri luoghi, ricordare altre persone cadute anche distante.
Accostare i fucilati di Castelletto con i fucilati di Savona, leggere insieme le lettere di due caduti, non significa per me sminuire l’importanza di quanto accaduto a Castelletto, ma di contro significa inserire la memoria dei fucilati di Castelletto nella memoria di tutti i caduti per la libertà.
Ricordiamo un evento per ricordarli tutti, ricordiamo un caduto per ricordarli tutti, tutti quei “centomila morti” col sangue dei quali, come diceva Piero Calamandrei, è stata scritta la nostra Costituzione.

Intervento di Michele Beltrami a Novara

TRUCIDATI DI PIAZZA MARTIRI E PIAZZA CAVOUR
70° ANNIVERSARIO
NOVARA 24 ottobre 2014
Intervento di Michele Beltrami
" Avevo qualche perplessità ad accettare di intervenire a questa vostra manifestazione sia per altri impegni sempre legati al 70° della Resistenza sia perché sono già intervenuto proprio qui a Novara il 25 aprile 2008. L’Assessore Paola Turchelli e il dottor Giovanni Cerutti, direttore dell’Istituto della Resistenza mi hanno convinto a sciogliere ogni riserva ed ora eccomi qui.
Quelli di voi che hanno assistito al mio precedente intervento mi perdoneranno se qualcosa di ciò che vado a dire oggi suonerà loro come “già sentito”.
Enrico Massara, nella sua “Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese”, all’inizio del capitolo dedicato all’eccidio che oggi ricordiamo, scrive “A Novara, immediatamente dopo l’8 settembre ’43, nascono i primi gruppi di resistenza, le prime squadre d’azione partigiana (SAP) che operano sia nel capoluogo che nei paesi del circondario”.
Questa tempestiva reazione si spiega col fatto che a Novara l’opposizione al fascismo non era mai venuta meno: si pensi a quanto accadde nella frazione di Lumellogno, dove la popolazione il 15 e il 16 luglio del 1922 si rese protagonista di un eroico episodio di resistenza a una spedizione punitiva dei fascisti, sopportando alcune perdite e numerosi feriti, come accadde a Parma e a Sarzana. Episodio per il quale la Città di Novara nel 2007 fu insignita di medaglia d’oro.
L’opposizione, continuò nella clandestinità per poi riemergere il 25 luglio 1943 e prepararsi a quello che sarebbe stato il suo periodo più duro, ma anche più glorioso.
Durante i quarantacinque giorni del governo Badoglio molte persone e gruppi di persone che in diversi luoghi avevano costituito una rete sotterranea nella città negli anni della dittatura, divennero attori di una palese mobilitazione antifascista, per poi sparire nuovamente nell'ombra dopo l'8 settembre '43, senza peraltro cessare la loro attività. Attività che favorì la nascita e l’organizzazione dei primi gruppi di resistenza in città e i contatti con le brigate che andavano formandosi in collina e in montagna, verso le quali molti giovani novaresi si avviarono.
Fra queste il Massara ricorda in particolare“… il gruppo guidato da Filippo Maria Beltrami, il Capitano, che opera nel Cusio…”.
Il sorgere e il rafforzarsi dell’attività partigiana e il crescere dell’ostilità che circonda nell’opinione pubblica il risorto fascismo e l’occupante tedesco preoccupano il governo di Salò che, a Novara, sostituisce nella carica di Commissario Prefettizio Tuninetti, giudicato troppo morbido, prima con Gargano Barbera, quindi con Enrico Vezzalini. La gestione di Vezzalini, con l’ausilio di due questori succedutisi nell’incarico, Ugo Abrate e Emilio Pasqualy, contraddistingue una lunga stagione di terrore in città e nella fascia circostante.
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In particolare, come ricorda Massara, “l’assassinio nelle piazze e nelle vie della Città, e comunque nei luoghi abitati è l’operazione preferita dai capi della Squadraccia perché i morti fanno spettacolo, la popolazione deve vedere …”.
La ferocia della Squadraccia era tale che persino il sottosegretario agli interni della Repubblica Sociale, Giorgio Pini, dopo un’ispezione a Novara nel novembre del 1944, la definì “formazione di torturatori criminali” e costituì motivo di preoccupazione presso gli stessi tedeschi che ne caldeggiarono l’allontanamento, insieme a quello dello stesso Vezzalini.
Solo nel gennaio del 1945 furono trasferiti a Modena. Il Vezzalini alla Liberazione fu catturato, processato e fucilato a Novara  Gli altri dopo la Liberazione furono arrestati, processati e condannati, ma riuscirono presto a tornare liberi. Qualcuno di loro fu persino eletto nel Parlamento della Repubblica. Così come molti altri criminali fascisti.
Vengano i negazionisti, i revisionisti, i fautori della memoria condivisa in queste piazze novaresi, vengano in questa piazza Cavour, vengano in Piazza Martiri della Libertà (allora Piazza Vittorio Emanuele II) dove 70 anni fa, nell’ottobre del 1944, vennero trucidati gli otto giovani che oggi ricordiamo. Leggano le lapidi. Si facciano raccontare cosa è successo e ci dicano poi cosa si può negare, cosa si può rivedere, quale memoria si può condividere.
Qui, in questa piazza, il 17 ottobre venne fucilato un giovane “patriota”, il carabiniere Natale Olivieri, che era stato catturato a Biandrate. Quindi, nella sola giornata del 24 ottobre, vennero uccisi dai fascisti della “squadraccia”, per vendetta della sconfitta subita in uno scontro coi partigiani, altri sette “patrioti” (così è doveroso chiamarli), 
tre in piazza Martiri
Giovanni Bellandi
Ludovico Bertona
Aldo Fizzotti
e quattro in piazza Cavour
Vittorio Aina
Mario Campagnoli
Emilio Lavizzari
Giuseppe Piccini
prelevati dal carcere dove erano stati rinchiusi e tutti a lungo e brutalmente percossi dal Pasqualy e dal suo aiutante, il “boia” Martino
Ma neppure da morti questi otto poveretti ebbero pace. I loro cadaveri vengono lasciati a lungo senza sepoltura e vengono vilipesi dalle ausiliarie fasciste.
Credo che molte cose siano state narrate nel corso delle commemorazioni che anno dopo anno hanno ricordato questi tragici episodi e questi otto caduti, ma io voglio soffermarmi sulla figura di Natale Olivieri, del quale nulla sapevo.
Il carabiniere Natale Olivieri, entrato nella Resistenza dopo l’8 settembre, era partigiano della Brigata "Osella". Per evitare rappresaglie contro i civili, si consegnò ai fascisti che lo cercavano. Venne bastonato, preso a calci, vilipeso e quindi trascinato da Biandrate a Novara dalla "Squadraccia". Arrivato a Novara, fu nuovamente torturato. Qualche ora più tardi, più morto che vivo, venne fucilato in piazza Vittorio Emanuele II (ora Piazza Martiri della Libertà). 
Il prof. Piero Fornara, ebbe modo di ricordare: "...attorno al cadavere di Olivieri pietà e odio, dolore e sarcasmi si susseguirono sino al tramonto. Le Ausiliarie danzano sopra il cadavere e gli cacciano i tacchi nella faccia, altri sono forzati a sputare sul morto...".
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Ma, permettetemi la digressione, non sapevo nulla neppure del giovane Giuseppe Cortellucci, anche lui carabiniere, che seguì sui sentieri dell’estremo ponente ligure Felice Cascione, l’eroico comandante partigiano, autore della canzone “Fischia il vento”¸ catturato dai tedeschi e ucciso dai fascisti al termine di un combattimento nel gennaio del 1944.
Nella bella ricostruzione della figura di Cascione, che recentemente ci ha donato Donatella Alfonso, si legge: “Felice Cascione vede i tedeschi catturare Cortellucci, il carabiniere. E grida: Lasciate libero quest’uomo, sono io che l’ho costretto a venire in banda, sono io il comandante!... Carabinè [questo il suo nome di battaglia] ricorda solo questo, prima di svenire per le botte e la disperazione”. Cortellucci viene portato via dai tedeschi, poi i carabinieri intervengono (Cascione aveva detto che era suo prigioniero) e viene riarruolato. Diserta un'altra volta. Raggiunge la formazione "Cascione" e quando si trova isolato in uno scontro a fuoco si uccide."
Ho appreso della vicenda di questi due giovani, di queste due belle ed eroiche figure, quasi negli stessi giorni e per questo ho voluto accostarle e condividere con voi due pensieri con i quali vado a concludere.
In primo luogo nella Resistenza combatterono molti giovani carabinieri, che dopo l’8 settembre, scelsero di raggiungere le formazioni partigiane, nelle quali combatterono eroicamente, spesso pagando con la vita. E questo è giusto sottolinearlo proprio oggi qui a Novara.
In secondo luogo, così come la figura di Natale Olivieri mi ha fatto pensare a quella di Giuseppe Cortellucci, la vicenda e la fine di Felice Cascione mi ricordano la vicenda e la fine del papà, del Capitano.
E questo mi commuove e mi stimola a ragionare sulla profonda comunanza di ideali, di coraggio, di spirito di sacrificio che c’era anche fra uomini che non s’incontrarono mai, che combatterono in luoghi fra loro lontani, che erano spesso diversi per età, per ambiente, per formazione culturale e politica.
Anche questo fu la Resistenza ed è con questo spirito, privo di ogni campanilismo , che noi oggi dobbiamo ricordare gli otto giovani trucidati 70 anni fa nelle piazze di Novara, la cui memoria non potrà mai essere mai essere condivisa con quella dei loro assassini, di quella “formazione di torturatori criminali” come furono definiti dai loro stessi camerati.
Fra pochi mesi, il 25 aprile del 2015, termina il 70° anniversario della Resistenza, ma non devono cessare le occasioni di ricordo.
Molti fatti, molte figure dobbiamo ancora far venire alla luce, molte storie da raccontare o da farci raccontare, molti strumenti da mettere in campo perché la memoria non si perda.
W la Resistenza! "

lunedì 15 dicembre 2014

Intervento di Michele Beltrami all'Alpe Camasca

Ho incontrato Michele, il figlio del Capitano Beltrami, alla cerimonia di premiazione degli ultimi vincitori del Premio della Resistenza Città di Omegna 
In quell'occasione mi aveva promesso che mi avrebbe fatto avere alcuni dei suoi recenti interventi nei luoghi dove sono stati uccisi i partigiani del Novarese e del Cusio-Verbano -Ossola durante la seconda Guerra mondiale 
Pubblico per primo il suo discorso al Sentiero Beltrami  all' ALPE CAMASCA il 16 agosto 2014
Un grazie molto sentito a Michele per avermi permesso di pubblicare in questo blog le sue parole preziose 
Per non dimenticare Per riflettere su ciò che sta succedendo ora ... 

" Ogni volta che torno qui in Camasca penso che qui è iniziata l’avventura partigiana del papà e che in una di queste baite il papà e la mamma hanno passato insieme gli ultimi giorni, prima che la mamma ritornasse da noi figli e il papà proseguisse la lotta, fino al tragico epilogo di là dai monti.
Sul papà, sul suo ruolo nella Resistenza nel Cusio-Ossola, sulle cause e sull’opportunità della battaglia di Mégolo molto è stato scritto e molte parole sono state dette, anche qui, in altre occasioni.
Io voglio oggi riprendere invece quanto scrisse nel lontano settembre 1946 Piero Calamandrei, recensendo su “Il Ponte” la prima edizione del libro della mamma “Il Capitano”. È, per me, non solo della più bella e commossa recensione del libro, ma anche del più bel ritratto dei nostri genitori.
Ve ne leggo alcuni passi, rammaricandomi di non avere, né di saper imitare, la calda parlata toscana che ci è riportata dalle registrazioni dei suoi discorsi.
" Allora, quando lo conobbi alla sfuggita, mi pare nell’estate dei ‘42, non era il “Capitano”: era soltanto un architetto, un professionista come tanti altri, taciturno forse e pensoso un po’ più degli altri. Ora l’immagine di lui, lasciatami da quel primo incontro distratto in mezzo ad altra compagnia, mi sfugge: eppure, ora, mi sarebbe assai cara e preziosa. Chi avrebbe potuto prevedere questo destino? Ricordo soltanto che, presentati da altri amici, salirono anche loro, i coniugi Giuliana e Filippo Beltrami, a vedere il tramonto [sulla pineta] dalla nostra terrazza. Mi par di ricordare che i coniugi Beltrami amavano stare vicini, senza mescolarsi alla conversazione, confidandosi a bassa voce, appoggiati alla ringhiera, le loro impressioni.
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Ora i pini non ci sono più: in quattro anni il mondo ha cambiato faccia. C’è un deserto calcinato al posto della pineta; e nessuno più sale ad ammirare il panorama dalla terrazza. di cui le cannonate hanno frantumato la scala. E l’architetto è diventato ‘il Capitano”: un’ombra eroica, il fondatore e l’animatore di una delle prime bande partigiane dell’Alta Italia, di cui per quattro mesi la gente nella zona dei laghi intorno a Omegna ha parlato come di un capo leggendario,fino a che, di azione in azione, il 13 febbraio 1944 è caduto a Mégolo, combattendo in campo aperto contro la battuta dei tedeschi e dei fascisti; lui e pochi fedeli, forse una ventina, contro un esercito.
Ed ecco che la moglie ora dedica all’ombra del “Capitano” questa prosa nitida e casalinga, colla quale ella si sforza di capire, e di far capire al lettore, perché egli ha preferito questa morte alla felicità: sicché il lettore non sa se più amare in queste pagine la franca naturalezza con cui quest’uomo libero, questo borghese senz’enfasi e senza retorica, sceglie la via della morte, o la discrezione con cui la moglie racconta di lui e di loro due, con quest’aria di sincerità trasparente e lieve che non fa pesare su chi legge il dolore di lei rimasta sola, e lascia nel ricordo un senso di purezza e quel sorriso solare che ha l’immagine di lui sulla copertina.
Alla fine del piccolo libro si pensa: “Dunque nel mondo possono nascere ancora uomini così: dunque il mondo non è finito...”. E questo pare un conforto; ma, più che un conforto, è un mistero. Da quale forza sono spinti gli uomini come questo? Era un uomo felice. Aveva l’amore della sua donna, aveva i suoi figliuoli, la gioia del lavoro, tutta una vita da vivere dinanzi a sè. Nessuno glielo imponeva, nessuno glielo chiedeva: era un borghese pacifico, senza ambizioni, non iscritto ad un partito. Ogni obbligo legale si sfasciava in quel momento (era la fine del settembre ‘43), ognuno andava per conto suo: tutti, lì dai laghi, si affrettavano a rifugiarsi in Svizzera. Sarebbe stato facile, anche a lui, mettersi in salvo colla sua famiglia: quale fu il misterioso movente che gli insegnò un’altra strada?
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Le pagine più toccanti di questo libro sono quelle che riferiscono i colloqui tra questa moglie e questo marito, che parlano a bassa voce, seduti dinanzi al fuoco nella villa solitaria o nella baita di montagna, dov’è il comando del “Capitano”. Intorno c’è l’ansia del pericolo; e loro due prima di addormentarsi conversano come due amici, in tono semplice, quasi scherzoso, timorosi di adoprare parole troppo grandi e troppo serie, quando il dialogo li porta a parlare di quello che è il punto d’incrocio di tutti i fili della vita: il perché della morte, il perché del dovere.
Nell’ultima sua lettera alla moglie, consegnatale dopo la sua morte, c’è una frase rivelatrice:
“...io ho voluto e desiderato questa prova, che mi viene imposta da un più alto e strano senso del dovere”. Anch’egli, alla vigilia della morte, mentr’era pronto ad obbedire a questa voce del dovere, ne avvertiva la natura misteriosa e inesplicabile: “alto e strano senso del dovere”. Anch’egli lo chiamava “strano”: estraneo, sì, a tutte le leggi utilitarie conosciute dai biologi."
Questo scriveva Calamandrei nel 1946. Lo stesso Calamandrei che, terminando il famoso discorso sulla Costituzione, pronunciò le parole che tutti noi antifascisti abbiamo stampate in testa e che è opportuno ricordare qui oggi:
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.
Il discorso fu pronunciato da Piero Calamandrei nel 1955 a Milano per l’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare in modo accessibile a tutti i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associativa.
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E fu proprio la mamma ad aiutare questi studenti a organizzare il ciclo di conferenze.
Ora, pensando al papà che su queste montagne si è sacrificato e alla mamma che ha dedicato gran parte della sua vita a studiare e a diffondere la lettera e lo spirito della Costituzione nata dalla Resistenza, come posso io loro figlio, come possiamo noi loro figli non sentirci angosciati e offesi di fronte all’improvvida leggerezza con cui, e con quali alleanze, vengono affrontate oggi le riforme istituzionali.
Sarebbe bene che questi nostri giovani governanti seguissero anch’essi l’invito di Calamandrei e venissero in pellegrinaggio nei luoghi dove sono caduti i partigiani, nei luoghi dove è nata la nostra Costituzione. "

Le origini cusiane di Giuseppe Verdi

Sabato ho letto con curiosità ed interesse questo curioso articolo de La Stampa VCO
" Negli archivi parrocchiali scoperto che il bisnonno del compositore era nato a Crusinallo
Scorreva sangue cusiano nelle vene di Giuseppe Verdi. Il grande compositore era, per parte materna, originario di Crusinallo, essendo suo bisnonno, Fermo Lorenzo Uttini, nato in quel paese nel 1708. Uttini si trasferì poi nel Piacentino dove una sua figlia, Luigia, sposò Carlo Verdi, padre di Giuseppe. Una studiosa americana, Mary Jane Phillips-Metz, nel 1996 pubblicò una biografia del musicista avanzando per prima l’ipotesi che la famiglia di Verdi era originaria del lago d’Orta.   
La prova arriva oggi grazie a un’attenta ricerca negli archivi parrocchiali svolta dal ricercatore Alessio Iannotta: su proposta del sindaco di Omegna Adelaide Mellano e del parroco don Gianmario Lanfranchini ha ritrovato anche l’atto di battesimo di Fermo Lorenzo Uttini, nato il 12 agosto a Cranna Superiore, oggi San Fermo, frazione di Crusinallo. «E’ una storia affascinante - osserva Iannotta -, è bello pensare che la vena artistica e musicale di Giuseppe Verdi gli viene dal Dna da parte materna. Gli Uttini di Crusinallo, per oltre un secolo, si coprirono di gloria musicale in tutta Europa: Elisabetta cantò a Venezia nel 1721, Francesco Uttini, altro parente, fu eletto accademico ad honorem della Filarmonica di Bologna e un altro Francesco Uttini, musicista, fu maestro di cappella e direttore dell’opera italiana a Stoccolma, considerato il fondatore dell’Opera nazionale svedese».  
E' bello scoprire che la chiesa parrocchiale  dove sono stata battezzata e cresimata è la stessa chiesa dove due secoli e mezzo prima fu battezzato anche il bisnonno materno del grande compositore italiano 
Una famiglia notevole, tra l'altro, sia  gli uomini che le donne !

Una tessera per chi è in difficoltà economiche

Una delle notizie de La Stampa VCO di questi ultimi giorni parla di una iniziativa del Lions club di Omegna , in collaborazione  con il Ciss del Cusio, la Fondazione Comunitaria del Vco e i supermercati Savoini, che potrà aiutare 53 famiglie in difficoltà
Grazie ad una raccolta  fondi tramite la vendita di panettoni, i soci del Lions hanno raccolto 4.500 euro a cui sono stati aggiunti altri 1.500 euro della fondazione I soldi serviranno per dei  buoni acquisto di generi alimentari nei supermercati Savoini. 
 «Grazie alla generosità dei nostri soci abbiamo raccolto una somma significativa che abbiamo donato al Ciss per le loro esigenze», ha detto Tiziano Cavestri presidente del Lions Omegna.
 «Verranno consegnati 17 buoni pasto per un totale di 2.750 euro a famiglie con minori a carico - ha aggiunto Renzo Sandrini presidente del Ciss Cusio - altri 1.950 euro andranno a 28 persone sole con gravi difficoltà economiche e sociali e i restanti 700 euro sono destinati a famiglie senza minori. Altri soldi serviranno a pagare bollette a persone che non riescono a far fronte a queste spese».  
«Verranno distribuite tessere tipo bancomat, realizzate grazie ai supermercati Savoini, validi come buoni spesa del valore di 50, 100 e 150 euro - ha spiegato Ivan Guarducci presidente della fondazione -. Anche la famiglia Savoini ha contribuito offrendo il 10% del valore della spesa». 

 Le famiglie che potranno beneficiare del contributo sono 53; 41 residenti ad Omegna, 9 a Gravellona Toce e 2 a Casale Corte Cerro.
Di queste famiglie, individuate attraverso la San Vincenzo e le parrocchie, solo 9 sono straniere; le altre sono tutte italiane.